mercoledì, febbraio 16, 2011

Due storie tra passato e futuro

E' un piccolo paese dello Zhejiang, non lontano da Shanghai, una cinquantina di case sparse tra i gelsi: Jili è stata per secoli il centro della produzione della seta cinese. Gli abiti degli imperatori, che raccontavano il loro splendore e la loro ricchezza uscivano da qui. Era la seta di migliore qualità, di una purezza straordinaria per l'acqua e grazie a una particolare varietà di gelso, di uno splendido candore e tessuta su telai a mano. Nel periodo di maggiore splendore ci sono stati fino a diecimila telai.


  Poi sono arrivate le macchine e la lavorazione manuale non è più stata conveniente, la rivoluzione culturale ha cancellato la cultura del passato come un fardello odioso, l'inquinamento ha fatto perdere le caratteristiche ottimali del prodotto, la offerta di migliori condizioni di lavoro sulla costa ha fatto emigrare i contadini.
Così la sapienza manuale, il gusto di creare dei prodotti unici sono stati sconfitti. Tra poco anche l'ultima fabbrica chiuderà e la sapienza materiale non ci sarà più.

Ci spostiamo in Italia, a Prato: "quella parte d'Italia benedetta da Dio che da materiali poveri ha creato la ricchezza, trasformando gli stracci in buoni tessuti e dando vita a qualcosa che assomiglia a un capitalismo morale, per cui gli operai più capaci e volenterosi che decidono di mettersi in proprio e diventare imprenditori possono provare a farlo con una certa possibilità di successo".
Parla Edoardo Nesi, che di quella storia è stato uno dei protagonisti, rappresentante della terza generazione della T. O. Nesi & Figli, a Prato ha lavorato fino a che «Nel settembre del 2004, il 7 settembre del 2004, ho venduto l'azienda tessile della mia famiglia».
E' questo l'inizio del libro "Storie della mia gente" che racconta la decadenza di questo distretto tessile, pieno di capacità tecniche e di tanta improvvisazione.
Si arriva alla fase finale della storia. A Prato si capisce che «lo sviluppo miracoloso delle loro aziende era stato il risultato di una serie di circostanze straordinariamente favorevoli e irripetibili, una lunghissima e fortunatissima cavalcata sull'onda di una crescita epocale che era nata dalle rovine del dopoguerra e aveva trasportato tutti, capaci e incapaci, industriali e dipendenti, ben oltre i loro limiti».

Ma non era possibile continuare, lavorando negli stanzoni, con macchine, metodi e mentalità fermi da decenni e orari di lavoro di dodici ore al giorno, sabato e feste compresi.
Poi sono arrivati i cinesi che hanno portato all'estremo questo metodo, provocando il collasso di chi non reggeva più la concorrenza, di fronte al ricatto dei compratori sempre in cerca del prezzo più basso.
Chi ha potuto, i fortunati, ha trovato un compratore per l'azienda, alcuni hanno venduto le macchine, ma c'è stato chi, sventurato, ha travolto altri nel proprio fallimento.
Cosa ha fatto la collettività per garantire l'esistere e quindi facilitare la trasformazione delle capacità tecniche, artistiche e commerciali esistenti?
Nulla, ma non si poteva aspettare altro, individualisti gli industriali, fin che c'era da fare affari e da guadagnare in proprio, assente la collettività non in grado di orientare le scelte comuni. Ovvio l'esito.
 
Due storie, due luoghi distanti, una sola specializzazione: il tessile. Entrambi stritolati dalla evoluzione del mercato che non perdona chi non è capace di guardare oltre l'immediato.
Fa parte delle regole della economia di mercato, valide nell'ambito locale ma ancor più con la competizione portata a livello globale.
E chi semplicemente lavorava che colpa ha avuto? Poteva o doveva prevedere cosa stava succedendo, quando passava l'esistenza nei laboratori in mezzo al frastuono ritmico dei telai?

Allora mi dico che in queste logiche c'è qualcosa che non mi torna. L'uomo è parte del mercato e da questo viene schiacciato, o non dovrebbe essere il mercato al servizio delle persone?

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